Don Piero, il parroco di Santa Maria Ausiliatrice, mi aveva messo in una squadra di brocchi.
Il destino era segnato. Avremmo perso il torneo di calcio, in quell’estate del 1966.
Presi allora una decisione che, ancora oggi, mi stupisce.
Ero un bambino di 9 anni, timido, ligio ai doveri e alle responsabililità. Il dissenso, come accade spesso anche oggi, me lo tengo dentro, come mio nonno Alessio.
Invece, alla fine della scuola nel quartiere piccolo borghese di Ponte Crencano, a Verona, quell’estate tirai fuori le palle.
“Mi ritiro dal torneo, Giorgio. Trovatevi un’altra ala sinistra”, dissi all’organizzatore, che era un tirapiedi del prete e un baciapile di quelli che hanno scambiato la chiesa per un mercato.
Avevo scelto, così, la rinuncia. Io, che amavo il calcio quanto la mia vita. Io, che ero uno dei più gravi giocatori bambini della parrocchia. Io, che l’estate la passavo in città.
L’unica mia vacanza erano i 15 giorni d’agosto al mare, a Sottomarina, con mia sorella Patrizia, mamma Maria e papà Walter.
Non accettavo che avessero già deciso i vincitori del torneo di calcio della parrocchia, quell’estate del ’66. E che l’avessero fatto, da bastardi, a tavolino.
C’erano cinque squadre da 7 giocatori ciascuno – perché il campo di calcio della parrocchia era un campo a 7 – e nella mia squadra avevano messo solo me, come giocatore parecchio bravo.
Gli altri miei sei compagni erano per lo più negati per il gioco del calcio.
Nelle altre squadre, invece, i leccaculi di Don Piero si ritrovavano in due di bravi – a volte anche in tre – a giocare nella stessa squadra. Era evidente che il destino della mia squadra era segnato. E pure il mio.
Del resto – sia da piccolo calciatore, che poi da chierichetto – il mio destino era segnato, in parrocchia: mi avrebbero fatto fuori.
Non ero un leccaculo. Anche il mio silenzio urlava dissenso. Il mio amore per il libero pensiero non era gradito, in quella chiesa che ancora puzzava di Santa Inquisizione.
Non contava la fede, che avevo – e ancora ho – nel profondo del mio cuore.
Non contavano i valori dell’onestà, del rispetto, dell’amore per le altre persone.
Non contava il mio impegno a scuola, a catechismo (ero tra i più bravi), oppure nel gioco con gli altri bambini.
Contava il fatto che ero in una famiglia di persone che coltivavano il pensiero libero. E dove la servitù verso il Potere non era contemplata: non la conoscevamo proprio.
Cosa resta dopo le illusioni
Quando arriva il secondo 54, quello della delusione, ogni tanto penso all’estate del 1966.
Mi dico: “Hai provato la rabbia. Hai provato l’allucinazione. Hai provato l’autocritica. Adesso è arrivato il momento di abbandonare il campo”.
“Non gioco più, me ne vado”, dico tra me e me. E una sorta di pace mi entra nell’anima.
Come nell’estate in parrocchia, l’abbandono del terreno di gioco assomiglia a una vittoria.
Conosco i miei errori. Conosco gli angoli in cui sono una schiappa. Conosco le mie lacune.
So, tuttavia, dei luoghi dove sono bravo. So della mia onestà intellettuale. So della mia passione umana per gli altri.
Non siamo sempre costretti a combattere, a lottare, a giocare. Nessuno ci obbliga a restare in campo, se la partita è truccata.
La donna che amo non mi merita? La persona su cui ho investito anni di sentimenti, di pensieri, di sogni e di passione, mi ha deluso?
Dopo l’allegria di naufragi e tutto il resto, c’è anche – al 54° secondo – la strada della rinuncia.
Non è sempre vero che la rinuncia è una scelta triste. In molti casi è una scelta saggia. Ci rilassa. Ci fa riposare.
Il guerriero si toglie gli abiti, si tuffa nel laghetto in mezzo alla campagna, sente il fresco della libertà. E si ritempra.
Lo stare fuori dal campo di gioco
La rinuncia può essere una scelta. Lo stare fuori dal campo di gioco può essere frutto di un libero convincimento.
È tutta una questione di frame mentale. Non è vero che siamo sempre soggiogati dai nostri sentimenti e dalle emozioni prodotti dagli eventi, dalle altre persone, dal nostro passato.
Ci sono momenti in cui prendiamo una certa direzione in piena scienza e coscienza. Questo accade anche quando ci asteniamo, quando non torniamo alla lotta, quando la quiete diventa la nostra nuova dimensione.
Non mi riesce facile, ma provo una certa gioia interiore quando mi siedo sul divano del soggiorno di casa.
Mi abbandono al nulla. Non ho il computer acceso per scrivere. Ho chiuso l’Ipad dove ho i miei libri da studiare. Lo smartphone – con le sue diavolerie tipo Intelligenza Artificiale generativa – è lontano dalle mie mani.
Tiro un lungo sospiro. Penso al 30 giugno del 2021, quando nella stessa posizione ero al telefono con Lorenzo, il mio amico ergastolano, poche ore prima che morisse.
Ascoltavo l’amarezza di Lorenzo. La delusione. Anche lui era al 54° secondo. In quel momento, nell’ascoltarlo, mi dicevo che in me aveva trovato un amico che gli voleva bene, a cui affidarsi, che non l’aveva mai tradito.
Ripenso a quel giorno, quando sono seduto su quel punto del divano. E lascio ogni cosa andare. Esco dalla partita e dal terreno di gioco.
Sono libero, al 54° secondo, di mandare a fare in kulo ogni persona, ogni cosa, ogni lancia che ferisce.
Uscire dal campo di gioco, rinunciare, mollare l’impegno diventa una sorta di liberazione. Un dono che meritiamo di farci, di tanto in tanto.
Un tremolio rivelatore
Abbandonare la partita, uscire dal campo di gioco, rinunciare alla lotta porta però le sue conseguenze, nell’anima.
Lo possiamo fare qualche volta. Lo possiamo fare per qualche tempo. Lo possiamo adottare come tempo sospeso. Poi la vita torna a bussare alla nostra porta.
Se dentro di te senti, da sempre, l’urgenza di lottare fino all’ultimo. Se Ponzio Pilato è la figura che più disprezzi, perché hai il vizio di assumerti le responsabilità. Se tu non ti volti dall’altra parte, quando c’è da guardare negli occhi la verità. Ebbene, se c’è tutto questo… abbandonare la partita – calate le luci, scese le voci, silenziati i colori – ti lascia con un certo stordimento.
In quel momento, allora, un pensiero sottile come un filo di cotone ti si insinua. È una lieve intuizione che si insinua nel tuo cuore, prima ancora che nella tua mente.
Fai un lungo respiro, che senti poi uscirti dal petto. Ti guardi d’attorno, come se stessi cercando un gioiello importante che hai smarrito. C’è come un eccitante impercettibile tremolio che dal braccio destro si estende al corpo intero.
Alzi lo sguardo, diritto davanti a te. Hai già colto che stai tornando alla battaglia, perché i guerrieri – anche quelli, come te, non violenti – mica si ritirano.
Arriva la domanda che tutto cambia: “Le illusioni sono cadute. Lei (oppure lui) mi ha profondamente deluso, sconquassato, demolito. E… se cambiassi cavallo?”.
Un nuovo cavallo. Una nuova avventura. Un’altra partita. Ecco le atmosfere in cui ti piace tuffarti.
Maurizio F. Corte
(Parte 10 – continua)
*** Gli articoli sul “ciclo delle Illusioni” li trovi nella sezione Pratico di Nessuno™ di questo blog
- Maurizio F. Corte, giornalista professionista, scrittore per i media e media educator, è docente a contratto di Comunicazione Interculturale nei Media al Centro Studi Interculturali dell’Università di Verona e coordinatore didattico del Master in Intercultural Competence and Management
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