Illusioni cadute. L’allucinazione che ci porta in paradiso

Cos’è un’allucinazione?

È quella cosa che vedi nei film. Oppure la vivi nella vita reale se hai assunto strane sostanze.

L’allucinazione è inganno. È paradiso. È sfida, vittoria e sconfitta. Dipende da quale angolazione la guardi.

L’allucinazione è, soprattutto, un’eccellente via d’uscita quando crollano le illusioni. E tutto sembra perduto.

Sono finiti i carburanti della rabbia, della fuga, dell’allegria di naufragi. E in mano ti restano poche carte da giocare.

La ragazza del negozio e le mie sigarette

Avevo compiuto 18 anni all’inizio dell’anno. Tant’è che nell’autunno del 1975 mi sentivo già un uomo vissuto. E, soprattutto, ero orgoglioso del mio essere un dissidente.

Molti anni dopo avrei capito il prezzo che si paga a essere un dissidente. Ma questo è un altro discorso.

Lei (non ricordo il nome, lo confesso) mi aveva colpito per il suo modo di guardarmi e sorridere. Lavorava come commessa in un negozio del centro di Verona, in via Cappello.

Ero entrato nel negozio, dove lavorava come commessa, per comprare un paio di jeans. Roba da pochi soldi.

Avevo parcheggiato la mia Dyane 6 a pochi metri dal negozio, perché allora il centro storico di Verona non era vietato alle auto. E accettava anche i vecchi catorci francesi come il mio.

La Dyane 6 scassata era un regalo di mio padre Walter, eccellente meccanico d’auto.

Nato in osteria e cresciuto in officina, io non potevo non avere un’automobile a 18 anni. Tant’è che avevo cominciato a guidare a 16 anni, ma non è il caso di ricordarlo.

Lei – la commessa del negozio del centro – era solare. Aveva una dolcezza nei gesti che non avevo mai incontrato. Era ammaliante, con quel suo modo di fare, tra blue-jeans, felpe e camicie Anni Settanta. 

Potevo intingere la mia malinconia adolescenziale nel suo ottimismo. E vi trovavo quiete. Anzi, allegria.

Superando la mia riservatezza, ero riuscito a strapparle un appuntamento. Ovvero, le avevo proposto di darle un passaggio verso casa, con la mia sgangherata Dyane 6.

Quel mattino d’autunno, un sabato, mentre aspettavo la sua uscita – alle 12.30 – dal negozio, feci un gesto che non avrei più fatto in vita mia: mi accesi una Marlboro, rigorosamente di contrabbando e rifornitami da mio zio Palmiro, con un’altra Marlboro.

Accendere una sigaretta con un’altra sigaretta? È come ubriacarsi da ubriachi. Non va bene.

Il viaggio in auto fu piuttosto breve, ma intenso. In poche frasi, seppi della sua vita. E io, in altre poche frasi, le raccontai della mia vita di studente.

Lei abitava nella periferia veronese, perché funziona così – allora come oggi: fai servizio per i ricchi e i potenti nel centro cittadino, ma alloggi in una casa modesta di cui fai fatica a pagare l’affitto.

La osservai scendere dalla mia Dyane 6. Mi sorrise. Mi piacque il suo modo di salutarmi, di puntare dritto ai miei occhi, di osservarmi per dieci lunghi secondi… e poi scappare via.

Non ci saremmo – per mia scelta – più rivisti.

Era bastata una sua frase per far cadere la mia illusione. O, meglio, quella che oggi posso definire una allucinazione.

L’allucinazione di un viaggio breve

Quando cadono le illusioni, abbiamo una serie di soluzioni a portata di mano. Una sfilza di possibilità.

Il problema è che quelle soluzioni si elidono, una ad una, come birilli travolti dal treno in un gelido mattino di gennaio.

La via di fuga è venuta meno. L’allegria del naufragio è svanita, come svanisce la birra dopo una nottata di ebbrezze. Tutto quanto sparisce.

Abbiamo però una carta di riserva. Un jolly da giocarci.

È l’allucinazione.

Non servono strane sostanze per provocarla, quell’allucinazione. Non credo, almeno.

Non ho mai fatto uso di droghe – e disprezzo i criminali che ne fanno un traffico internazionale – per cui posso assicurare che l’allucinazione di cui parlo… è naturale.

L’allucinazione nasce dal nostro desiderio di un mondo nuovo in cui vivere. Un mondo che ci scaraventi lontano dalla caduta dei sogni.

Siamo esseri cangianti. Abbiamo un’identità che muta, come ci ricorda Agostino Portera, pedagogista.

Lei – quella del negozio nel centro di Verona – mi aveva portato all’allucinazione di credere che fra noi potesse nascere una storia d’amore.

Il suo sorriso che la illuminava di una luce ingenua. Il suo modo di camminare. I dettagli dei suoi capelli capricciosi sulla fronte. Tutto questo mi aveva messo sulla pista di rullaggio.

L’allucinazione, mi viene da dire, è come un infinito decollo: la spinta dei motori, la terra che lasciamo dietro di noi, il cielo che ci attende.

Lei mi aveva fatto decollare, in quel breve viaggio sulla Dyane 6, mentre la mia gola aveva ancora il sapore intenso delle sigarette Marlboro di contrabbando.

Poi, però, Lei aveva pronunciato una frase banale, scontata, innocua. E tutto era crollato.

“Mio moroso ha una moto Ducati carenata”, mi aveva detto.

Io, con la mia scassata Dyane 6, che cosa avrei potuto ribattere? Mi sarei dovuto mettere in competizione con uno che girava con una moto che non mi potevo permettere?

Avrei potuto dire che mio papà Walter – ed è vero – aveva avuto una collezione delle migliori Alfa Romeo? Avrei potuto dire – ed era vero – che nel nostro garage c’era parcheggiata una Mercedes Pagoda 350 SL?

Io non guidavo il Pagoda (l’avrei fatto un paio di anni dopo). E, soprattutto, non volevo essere valutato per l’auto per guidavo, ma per come ero.

Ero un giovane innamorato della Filosofia. Ero un giovane degli affollati Anni Settanta, pronto a battersi per i più deboli.

Ero un giovane che avrebbe dato la vita – era il 1975 – per un’Italia migliore, mentre terroristi rossi e neri insanguinavano le strade.

Ovviamente, a Lei delle mie idee, dei miei sogni e di cosa provassi io, non avrebbe mai potuto fregare una mazza.

Ero un giovane interessante, secondo alcune giovani donne; ma ero anche assai complesso. 

Non avevo, tuttavia, una moto potente con cui affascinare lei, la commessa. Quindi, non c’era partita che potessi giocare.

E, soprattutto, non avevo voglia di raccontarmi – vantando il Mercedes Pagoda 350 SL di papà Walter – a una donna che, ne ero certo, non avrebbe capito il tempo in cui stavamo vivendo.

Cosa resta dopo l’allucinazione

Le allucinazioni naturali non ti lasciano il mal di testa. Non hanno droga, alcol o altre sostanze strane per formarsi.

Non hanno, quindi, retroazioni invalidanti.

La sfiga dell’allucinazione naturale è che poi sei di fronte a te stesso. Senza scuse. Senza alibi. Senza scappatoie.

E devi ripartire da zero.

Non hai la scusa della sbronza. Non hai la scusa della canna. Non hai neppure la scusa, banale, di aver perso la testa per la stronza (o lo stronzo) di turno.

Non ci sono attenuanti: la fine dell’allucinazione ti richiama alla realtà.

Oltre alla realtà, tuttavia, la fine dell’allucinazione ci mette un carico da 90: l’autocritica.

Adesso ti pare di essere giunto alla soglia della verità. E la faccenda ti terrorizza.

Ti trovi, come Joseph K. nel romanzo Il Processo, di Kafka, di fronte a un’accusa che non ti lascia direzioni di libertà.

Nessuno può esimerti dal processo. E l’autocritica – lo sappiamo – è il più implacabile dei processi. 

Perché, nell’autocritica, pubblico ministero e giudice sono la stessa persona: sei tu.

“È venuto il momento, proprio adesso”, ti dici, “di guardarci allo specchio. E capire cosa non va”.

Maurizio F. Corte
(Parte 8 – continua)

*** Gli articoli sul “ciclo delle Illusioni” li trovi nella sezione Pratico di Nessuno™ di questo blog

Eugenio Finardi – Extraterrestre

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