Quella sera furono schiaffi a nastro, sul mio volto di giovane.
Non so cosa pensino i maschi dell’essere presi a schiaffi da una donna.
Io – che certo non sono un masochista – provai, nel gelido finale di febbraio, un senso di sollievo. Credevo che sarebbe stata l’occasione per un chiarimento.
Non è vero che il conflitto sia così negativo. Prendersi a schiaffi, tuttavia, non va bene ed è già violenza. Va oltre, molto oltre, il conflitto.
Il conflitto è creativo, se gestito e se non c’entra con il menare le mani.
Cosa c’è, allora, di più conflittuale del mettere se stessi alla sbarra? E dirci: “Maurizio, ora sei sotto accusa”?
Non ci prendiamo a schiaffi, come quelli che mi presi io, decadi fa. Tuttavia, metterci sotto accusa non fa meno male.
L’autocritica, dolce pozione dopo lo sconforto
Le illusioni sono cadute. Il traguardo che sognavi è alle spalle, e tu sei arrivato ultimo, come il ciclista Luigi Malabrocca.
Hai sbagliato tutto. Tutto appare perduto, irrimediabile, lasciato.
La rabbia ti ha abbandonato. L’allegria di naufragi è ormai un ricordo. E dell’allucinazione avverti soltanto il sapore amaro.
Come in un film di Sidney Lumet – quello dei legal thriller con i processi in un tribunale americano – ti compare davanti la tua figura. E ti impone di fare un esame di coscienza.
Cos’è un esame di coscienza
Cos’è un esame di coscienza? L’ho chiesto a Gemini, che è definito un modello di Intelligenza Artificiale. Non è intelligente, Gemini… ma non è neppure scemo.
È forse scema la tua lavatrice? No. Lava bene gli indumenti. E se lo fa male, la colpa è tua: sbagliato programma, sbagliato detersivo, disattenzione sui problemi tecnici.
Sostiene Gemini: “L’esame di coscienza è uno strumento di auto-miglioramento e di autoconsapevolezza. È praticato spesso come forma di meditazione o di riflessione quotidiana, per mantenere l’equilibrio interiore e prendere decisioni più ponderate”.
Lo schianto ti ha messo a terra, con la delusione del 54° secondo. Passi in rassegna, con il tuo stomaco, tutto lo spettro delle emozioni. E poi, a ricompensa, ti trovi lui: il Grande Accusatore.
Il Te Interiore ti pone domande scomode. È come un Pubblico Ministero (il PM) del tempo del caso del biondino della spider rossa.
Il PM mi considera colpevole. Come faccio, allora, Vostro Onore, a dimostrare la mia innocenza?
Ho amato una certa donna, proprio Lei perché era Lei. Ho puntato dritto al lavoro di giornalista, perché avevo poche alternative: o facevo il giornalista, oppure mi sparavo.
Ho sputato fatica, sudore e impegno nell’aiutare gli altri, che mi chiedevano aiuto. E ho perso.
Mi dovrei pure giustificare?
Il Pubblico Ministero – nonostante le illusioni cadute, la rabbia, la malinconia maledetta – non ci dà tregua.
Siamo sotto accusa. Accusare è il suo mestiere. Al PM della verità sostanziale dei fatti non frega nulla. Lui è il Potere. E il Potere non fa sconti.
Il PM esce dalla stanza degli interrogatori. Noi, in quel momento, siamo soli con la nostra mente, la nostra coscienza, i nostri ricordi.
L’immagine di lei (oppure di lui) entra ed esce dalla nostra testa.
Quel lavoro tanto agognato è finito in un fosso.
Come torri crollanti, il nostro mondo si trasforma in polvere.
“Dove ho sbagliato?”, viene da chiedersi.
Dove stanno i nostri errori
Tutte le volte che sbaglio, mi rendo conto che la ragione vera del mio errore sta in un solo posto: la presunzione.
Non che io sia una persona presuntuosa. Anzi.
Il problema è che presumo – e lì cade l’errore – che qualcosa accada in un certo modo: impilo dieci piatti e ci metto pure sette cucchiai e dodici forchette, sicuro che tutto si tenga, perché l’ho pensato io.
Invece no. Tutto mi cade a terra.
Presumo che il mio amore sarà ricambiato. E così la mia generosità. La mia onestà. Il mio amore per la comunicazione autentica.
Tutte balle. Tutto fuori fuoco. Tutto… presunto.
Il nodo, a questo punto, si fa evidente.
Se è costitutivo del mio essere il presumere che un metro misuri un certo numero di centimetri, allora se poi la realtà mi smentisce, vuol dire che il mio metro è sbagliato.
Correndo fuori dal campo di gioco
Se il mio metro è sbagliato (99 o 101 centimetri, anziché 100), allora tutta la mia vita è sbagliata. Tutte le mie scelte. Tutte le mie relazioni. Tutto in me.
L’ansia per l’errore sostanziale del mio essere si fa pesante. La mente si incasina, tra mille pensieri contraddittori. I muscoli si fanno di corda.
Tutto affonda. E solo io sono il responsabile.
Quando, però, tutto crolla – anche le Twin Towers dell’11 settembre – nulla impedisce al sole di sorgere ancora.
Nulla impedisce, a me – come a te – di correre fuori dal terreno di gioco.
Non è una fuga. Non è un’allucinazione. È che abbiamo deciso di abbandonare la partita.
In Mona (per in non veneti: “Fuck You”) il gioco che dovevo giocare. In Mona la donna che avrei voluto amare. In Mona il lavoro per cui ho sputato sangue.
Che vaga tuto in mona! Fuck you everything! Io non gioco più. Me me vado.
La scelta è facile, tutto sommato. Usciamo dal terreno di gioco, come quando cambi azienda, cambi scuola, vai in pensione.
Usciamo dal campo. Siamo sollevàti. E un pensiero ci raggiunge: “E se avessimo sbagliato campo di gioco?”.
Intanto, però, siamo fuori. E l’alba che ci attende è un’Alba Chiara.
Maurizio F. Corte
(Parte 9 – continua)
*** Gli articoli sul “ciclo delle Illusioni” li trovi nella sezione Pratico di Nessuno™ di questo blog
- Maurizio F. Corte, giornalista professionista, scrittore per i media e media educator, è docente a contratto di Comunicazione Interculturale nei Media al Centro Studi Interculturali dell’Università di Verona e coordinatore didattico del Master in Intercultural Competence and Management
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