Quand’è che senti accendersi dentro lo stomaco l’allarme? Quand’è che giri gli occhi, alla ricerca spasmodica di una via di fuga? Quand’è che ti prende la voglia di scappare?
Queste emozioni, legate alla fuga, le ho provate nell’agosto del 1975.
Ero su un rimorchiatore – imbarcazione che serve a trainare una grande nave dal porto verso il mare aperto – attraccato alla darsena, al porto di Ancona.
Avevo 18 anni. Ero da solo in vacanza e, sceso a farmi due passi al porto, mi ero avvicinato alle barche e a un transatlantico lì ormeggiato.
Capelli lunghi, come li portavo allora. Niente occhiali, dato che avevo le lenti a contatto. Un paio di pantaloni leggeri e una maglietta con le maniche corte. Ero vestito così, mentre una piacevole brezza marina rendeva la sera deliziosa.
Il centro di Ancona era un luogo inabitato. Una specie di non-luogo, senza persone. Molti si erano trasferiti, dopo il terremoto, in periferia. Chi era rimasto stava in vacanza in quella prima quindicina d’agosto.
Da alcuni giorni ero ad Ancona, alla Pensione Vittoria. Ero venuto a trovare una mia amica, Daniela, conosciuta via lettera. Allora si usava fare amicizia per corrispondenza.
Non che cercassi la morosa, via lettera. No proprio.
Mi piaceva, allora come oggi, dialogare con le donne, per cercare di capirle, per avere una visione diversa dalla mia, per arricchirmi come persona.
Era sera inoltrata. Da una mezzora ero sul rimorchiatore a chiacchierare con il comandante dell’imbarcazione, quando gli chiesi che ora fosse.
Con la scusa di dover rientrare a casa della mia amica – bugia colossale – salutai in fretta e guadagnai la riva.
I cinque metri dal centro del rimorchiatore all’asfalto della darsena sono stati i metri più lunghi della mia vita.
Con la scusa di parlare di donne mezze nude, che vedeva sul transatlantico, il capitano del rimorchiatore ci aveva provato.
Non è bello quando qualcuno ci prova. E ti senti molto vicino a una gabbia. Posso immaginare cosa provi una donna molestata, aggredita, violentata.
Credo che ciascun maschio dovrebbe provare – solo per qualche minuto – quella sensazione di prigionia e di violenza imminente.
La paura nel Porto di Ancona
“Che ore sono?”, avevo chiesto.
“Le 22.10”, mi rispose il comandante del rimorchiatore.
“Caspita. Mi chiudono la porta di casa, i genitori della mia amica. Devo andare. Grazie della chiacchierata. Buona notte”. E via di corsa giù dal rimorchiatore.
Il comandante, nel dialogo prima della fuga, mi aveva detto – con il fiato che si faceva pesante – che vedeva certe donne spogliarsi sul transatlantico. Mi aveva poi chiesto se di notte mi infilavo nel letto della mia amica Daniela.
Avevo mentito su dove dormissi, perché qualcosa non mi quadrava nei discorsi del marinaio.
Raggiunsi la darsena. Mi allontanai una trentina di metri dal rimorchiatore, infilando corso Garibaldi per andare alla pensione dove alloggiavo. Mi dissi che forse ero stato maleducato con il capitano. Che forse avevo frainteso.
Fui presto smentito. Sentii una voce chiamarmi dal porto. Mi voltai. Un marinaio enorme, come nei film, accanto al comandante del rimorchiatore, mi urlò: “Ehi tu! Ehi tu! Non lasciarlo solo!”.
Accelerai il passo. E poi mi misi a correre. Avevo scelto la direzione migliore: quella della fuga.
Caduta l’illusione di trascorrere un’ora a chiacchierare di barche, di mare e di porti con un vero marinaio, mi ero ritrovato nella delusione di un tizio che pensava di farsi il ragazzino. Cioè me.
Alla caduta delle illusioni, al pericolo, all’amarezza avevo risposto nel modo migliore: quello della fuga.
Cadono le illusioni. Che cosa facciamo?
Le illusioni durano 53 secondi esatti. Dopo questo tempo, che sembra breve, eppure incide nel profondo della nostra vita, abbiamo la verità.
La verità, purtroppo, è spesso amara. Non lo è sempre, ma lo è spesso.
Sono più le illusioni che cadono, rispetto a quelle che diventano vita vissuta, realtà appagante, esistenza da assaporare nella sua gioia.
Cosa succede al 54° secondo? Abbiamo la rivelazione. Abbiamo vinto. Oppure, e accade più spesso, dobbiamo fare i conti con la sconfitta.
Come possiamo reagire alla caduta delle illusioni?
Possiamo reagire con il pensare che le cose sono diverse da come ora appaiono: cerchiamo, insomma, di ristrutturare il pensiero, di cambiare ciò che abbiamo in mente, di rimodulare la realtà.
Ci può venire in soccorso la rabbia, che ci porta a reagire in modo violento. Possiamo, grazie alla rabbia, elidere tutte le emozioni, le sensazioni, i dati di verità.
La rabbia, tuttavia, è solo l’altra faccia del dolore. E non possiamo vivere di rabbia per sempre.
La rabbia ci ottunde la mente e offusca il pensiero. Poi svanisce come nebbia sopraffatta dal sole.
C’è però un angolo che può accoglierci. È l’angolo della vittima, dove ci rifugiamo, avviliti, pensando che il mondo ce l’abbia con noi.
Possiamo arrivare a piangere, per il sentirci vittima. Oppure possiamo decidere di entrare nel personaggio dell’eterno sconfitto.
Fare la parte dello sconfitto, della vittima, ho notato che è un’ottima arma di seduzione – se fatta da un uomo che bene si cala nel personaggio – verso un certo tipo di donna.
Non possiamo, comunque, essere sempre vittime. Soprattutto se abbiamo l’orgoglio di combattere.
Non possiamo essere sempre vittime, specie se abbiamo la dignità di non voltarci dall’altra parte, quando la realtà si impone nella sua ingombrante verità.
La scelta della fuga
Quando il vittimismo diventa inservibile, possiamo opporre una scelta che ci viene dalla notte dei tempi: quella della fuga.
Fuggire non è da vigliacchi, né da perdenti.
Non occorre dare ascolto a chi sostiene che occorre evitare l’evitamento, che occorre guardare in faccia la realtà. E che occorre accettare tutto e comunque.
Ci sono momenti in cui la nostra grandezza di persone si esprime al meglio con lo scappare.
Scappare via dalle situazioni frustranti. Via dal dolore. Via dalle persone che ci appensantiscono.
La fuga mi fa pensare a una corsa in bicicletta, con il vento che sentiamo scivolare sui capelli. Mi fa pensare a un giro su un’auto sportiva scoperta. Mi fa pensare al viaggio in nave, in piedi sul ponte di prua, attraverso un braccio di mare.
La fuga – è vero – può portarci a dimenticare, a distrarci, a lasciarci tutto indietro.
Tuttavia, ci può indurre a meglio concentrarci, a vedere le cose da un’altra angolazione, a riposizionarci verso noi stessi. E a riposizionare le altre persone rispetto a noi.
Quando sono sceso da quel rimorchiatore, nella notte marchigiana dell’agosto del 1975, subito mi sono sentito in colpa.
Mi pareva di essere stato scortese con il marinaio del rimorchiatore. Temevo di aver fatto la cosa sbagliata, di essermi perso l’occasione di gustare una fetta di notte nel porto.
Poi mi sono reso conto che invece stavo andando nella giusta direzione. La mia stessa vacanza solitaria – doveva venire un mio amico, con me ad Ancona, ma poi si era ritirato – era del resto la ricerca di un nuovo inizio.
Avevo compiuto 18 anni, quell’anno. Grazie alla riforma sulla maggiore età, ero andato a votare per la prima volta. E avevo addirittura fatto lo scrutatore al seggio, quand’ero poco più che un ragazzo.
Era un nuovo inizio. E la fuga verso le Marche, verso la notte nella mia pensioncina, verso i miei pensieri era stata la scelta per cambiare.
Quella fuga mi è servita a scoprire Sirolo e la Riviera del Conero, il mio luogo dell’anima. Da lì sarebbero passate tutte le svolte della mia vita: quelle della vittoria e quella del dolore.
Tuttavia, se la fuga è un’eccellente ricetta per il cambiamento, non possiamo pensare che tutto possa soltanto cambiare. Non possiamo pensare di dover sermpre fuggire.
Occorrono anche punti fermi.
Ci dice Eraclito, filosofo greco che adoro: “Non possiamo immergerci due volte nello stesso fiume”. Le acque del fiume cambiano, infatti. Sono sempre in fuga verso la foce.
Tuttavia, il fiume è sempre quel fiume. Lui non scappa mai, anche se si modifica. Lui resta lì, ad aspettarci, come l’Adige, il fiume di Verona, accanto a cui sono nato, nell’osteria di mia nonna Elda.
Ma non possiamo sempre fuggire
Siamo abili nel mettere in campo le scelte per dribblare la delusione del 54° secondo, quando cadono le illusioni.
Non possiamo, però, credere di vivere per sempre nell’eterno fuggire. Anche il poeta Francesco Petrarca, il cui dissidio interno lo portava a spostarsi da una parte all’altra dell’Italia, si doveva ogni tanto fermare.
C’è poi, in un certo momento della vita, una strana crepa che si insinua nella nostra fuga dalla disillusione.
È il momento in cui abbracciamo la sconfitta. È il momento in cui arriviamo ad amare il crollo delle illusioni. È il momento in cui ci inchiniamo alla verità.
La disillusione, allora, ci porta un certa allegria. È l’allegria che nasce dal comprendere che è meglio una realtà amarissima, rispetto a un inganno al sapore del miele.
Potremmo chiamarla – citando Giuseppe Ungaretti – un’allegria di naufragi. È il piacere della sconfitta, che a volte supera il sogno della vittoria.
Abbiamo combattuto come leoni. Abbiamo fatto salti lunghi come gazzelle; e corso come fanno i ghepardi nella savana; e gli orsi nel bosco.
Ora siamo fermi, a goderci la verità della sconfitta. Perché, come canta Francesco Guccini, perdere ogni tanto ci ha il suo miele.
Maurizio F. Corte
(parte 6 – continua)
*** Gli articoli sul “ciclo delle Illusioni” li trovi nella sezione Pratico di Nessuno™ di questo blog
- Maurizio F. Corte, giornalista professionista, scrittore per i media e media educator, è docente a contratto di Comunicazione Interculturale nei Media al Centro Studi Interculturali dell’Università di Verona e coordinatore didattico del Master in Intercultural Competence and Management
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