Illusioni cadute. Quando perdere ci rende un poco felici

Attraversavo Piazza delle Erbe, mettendo un piede davanti all’altro. Come se stessi camminando su una corda, alzata a trenta metri dal pavimento di pietre e calcare.

Il capo chino, le mani dietro la schiena, guardavo a terra, come se a terra ci fosse chissà quale risposta decisiva ai segreti dell’universo.

A Verona, la mia città, quella mattina gelida di fine gennaio avevo perso.

Non avevo neppure trent’anni, e mi sentivo sulle spalle il peso di un’età indefinita.

Era la prima volta che riuscivo a perdere tre partite nello stesso momento.

Avevo perso il lavoro che sognavo di fare. Persa la donna che avevo creduto di poter amare. Perso pure il conto in banca, dato che il rosso sull’estratto conto era di per sé evidente.

Non avevo soldi. Non avevo un lavoro. Non avevo un amore.

E, quel che è peggio, avevo trascurato il mio grande amore liceale – la Filosofia – per infilarmi in un lavoro che mi aveva deluso, un amore che non mi meritava, e neanche i soldi per farmi un regalo per il compleanno che stava, lento, per arrivare.

L’incontro con il passato

O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,

piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto

La voce, che declamava i versi dal Purgatorio della Divina Commedia di Dante, mi distolse dai miei pensieri.

Alzai lo sguardo. E me lo trovai di fronte. Era Andrea, mio vecchio compagno di liceo.

Erano anni che non ci si vedeva. Lui Medicina. Io Filosofia.

Dei nostri lunghi discorsi in classe mi rimanevano due precisi ricordi: i suoi racconti sulle gambe della professoressa di Letteratura Italiana e Latina – allora le donne indossavano minigonne che oggi definiremmo imbarazzanti – e la mia manìa per le canzoni di Guccini.

Senza pronunciare altre parole, Andrea mi prese per un braccio. Mi orientò verso un vicolo della Verona minore, dietro il Palazzo delle Poste. E ci infilò in quella che era rimasta la più vecchia osteria del centro.

Dall’osteria uscimmo più leggeri, dopo un’ora passata tra sigarette e parole, mentre un campanile batteva il mezzogiorno.

Non avevo toccato un goccio di vino, perché non mi piace bere a stomaco vuoto. Mi ero fermato a un analcolico.

Però ero rincuorato. Ora le mie tre sconfitte avevano, dopo la lunga chiacchierata con Andrea, il quasi sapore di una vittoria.

La gioia della sconfitta

C’è qualcosa di allegro nella sconfitta, del resto, se ci pensiamo bene.

Al 54° secondo, dopo i 53 secondi delle illusioni, la donna che tanto abbiamo amato ci ha deluso. Oppure – se siamo una donna – l’uomo per cui siamo rimasti svegli la notte ci ha tradito.

Al 54° secondo, tutta la grande lotta per il lavoro, su cui abbiamo sudato, si rivela vana.

Al 54° secondo, si schianta – come in un incidente aereo – ogni possibilità di cambiare vita. 

Eppure, proprio al 54^ secondo, abbiamo una grande possibilità: trasformare la perdita in un miele che ci consola. In un mattino che ci fa compagnia. In una notte che si fa complice.

Dopo il fallimento, abbiamo provato a ristrutturare il pensiero. Abbiamo provato l’inutile rabbia, che evapora come l’acqua sotto un ferro da stiro. Abbiamo tentato il vittimismo dei perdenti. Ci siamo tuffati in una fuga controvento.

Dopo aver sperimentato tutto questo, ci resta adesso una sottile, malinconica allegria.

Da dove viene quest’allegria di naufragi? Me lo sono chiesto molte volte.

La risposta che mi sono dato è che quest’allegria ci consola. E che la sconfitta ci chiude la strada verso una felicità, ma ci apre la via a nuove possibilità.

La donna che non aveva voluto iniziare una storia d’amore – per quanto le piacessi in un modo indescrivibile, cosa che non capirò mai – mi avrebbe aperto al grande amore della mia vita.

Il lavoro che mi era stato impedito, mi avrebbe aperto alla professione che ancora oggi sto facendo: quella della comunicazione.

E il conto in banca asciutto? Come mi aveva insegnato il professor Cecchella, economista universitario, molti anni fa, “i soldi si trovano. Difficile è avere le idee giuste”.

Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie

Così cantava Giuseppe Ungaretti, in Allegria di naufragi.

Come foglie d’autunno, cadiamo a terra, immoti. 
Ma come foglie di primavera, vivaddio, possiamo rivivere.

Credo sia per questo che la sconfitta – al 54° secondo – ci dona una certa allegria.

Sappiamo che, dopo la delusione, c’è l’amarezza a farci compagnia. Ed è, anche questa, un modo di stare assieme con noi stessi.

E dopo la notte, spunta il mattino

L’allegria, tuttavia, è come l’ebbrezza. Non può durare per sempre.

Dall’allegria ci riprendiamo abbastanza presto. La gioia della sconfitta si fa complice, ma soltanto per un tempo limitato.

Anche l’allegria di naufragi ha un suo tramonto.

È allora che ritorniamo alla base.

Ritorniamo al 54° secondo: alla consapevolezza della delusione, della partita perduta, del pugno a sorpresa che ci ha messi al tappeto.

Siamo stesi a terra. Sentiamo l’odore del pavimento, che mescola vecchio sentore di limone, polvere dei giorni andati e il resto del profumo della donna che abbiamo amato.

Ora che si fa? Alziamo lo sguardo, sperando in un miracolo. Forse c’è qualcuno che amiamo, lì ad attenderci.

Tendiamo l’orecchio, sognando che arrivi uno squillino dal nostro cellulare.

Ci chiediamo se mai vi sia anima viva, accanto alla nostra casa che ora ci sempre tanto vuota e tanto grande.

Ecco che, come passi lenti nell’oscurità di un selciato, avvertiamo un suono familiare.

Alziamo gli occhi. Ci tiriamo su in ginocchio, poi eretti, poi con lo sguardo affascinato.

Al 54° secondo stiamo entrando in un nuovo mondo.

Non ricomincia la conta del tempo. Ma è come se tutto riprendesse vita, seppure in maniera differente.

È l’allucinazione, bellezza. È la via d’uscita che, siamo certi, ci porterà in trionfo.

Maurizio F. Corte
(Parte 7 – continua)

*** Gli articoli sul “ciclo delle Illusioni” li trovi nella sezione Pratico di Nessuno™ di questo blog

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