Una mia compagna di liceo sorrideva sempre. Chiacchierava a nastro e sorrideva. Una volta che eravamo assieme sul bus, persino il conducente si lamentò del suo chiacchierare.
Nonostante le molte parole, tuttavia mi piaceva ascoltarla.
Mi parlava dei suoi corteggiatori – un carabiniere fresco di divisa, un aspirante infermiere, un apprendista meccanico – e li tratteggiava sempre nello stesso modo: erano tutti ai suoi piedi.
Usciva a turno con ciascuno di loro. Voleva capire qualche fosse l’uomo che faceva al caso suo.
“Maurizio, con chi devo mettere su famiglia e avere dei figli?”, mi chiedeva dubbiosa Carlotta, che era magrolina e bionda.
“Non sei obbligata a sposarti. Né ad avere figli”, le rispondevo. Ero per la paternità responsabile e dalla parte del libero convincimento.
Lei, allora, si fermava un attimo a pensare. Poi Carlotta mi ribatteva sempre la stessa frase: “Ho un grande sogno che si chiama amore. E un altro che si chiama decidere della mia vita. Ma voglio farlo dal ponte della mia nave”.
Carlotta amava comandare. Lo capivo dagli uomini, inferiori a lei e genuflessi come servi, che si sceglieva. Figure mediocri, almeno dal mio punto di vista.
Non mi sognerei mai di scegliere una donna per comandarla, mi ripetevo.
Quando scatta l’illusione
Come la Berta di Rino Gaetano, la mia compagna di liceo flirtava con più di un uomo.
Alla fine si è innamorata del carabiniere fresco di divisa.
Mi mostrava i messaggi che lui le mandava. Non c’erano gli smartphone, nel 1975. Erano brevi messaggi di testo su cartoncino color panna, che oggi potremmo chiamare “pizzini”.
Carlotta si illuminava quando parlava di lui. L’aspirante infermiere ormai l’aveva dimenticato; e l’apprendista meccanico era scomparso da qualche parte.
“Non è bello ciò che è bello. Ma è bello ciò che piace”, mi ripeteva Carlotta, che era forte in Matematica, ma non brillava in Filosofia. “E lui mi piace molto. Mi fa pensare che l’amore sia qualcosa di magico. Vorrei vivere per sempre in questa illusione”.
L’illusione di Carlotta, invece, cadde come cadono sempre le illusioni. Non crollò dopo 53 secondi, come accade per le illusioni più intense. Crollò, in compenso, dopo 53 giorni.
Il carabiniere si congedò. Passò a fare – finito il militare – il pizzaiolo. E si mise con la figlia del titolare del locale, che era una ragazza niente male, dalle foto.
La caduta delle illusioni
Quel lunedì mattina di fine novembre del 1975, Carlotta si presentò in aula con gli occhiali scuri. Si sedette, come sempre, accanto a me. E mi sussurrò: “Poi ti devo dire una cosa. Sono distrutta”.
I lunedì mattina non mi sono mai piaciuti. Tanto che adesso, che me lo posso permettere, li vivo come fossero una mezza vacanza.
La mia settimana ha inizio, infatti, dal martedì. Come per le estetiste e le parrucchiere, figure che adoro perché non lavorano di lunedì.
“Sono proprio sfortunata. Una vittima d’amore. Una sconfitta dalla vita. Si vede che è il mio destino. Del resto, mia madre mi detesta. Non mi sopporta. E io ne soffro”. Le parole di Carlotta mi procurarono una profonda tristezza.
Ero triste per lei, per quello che aveva detto, per quello che – con il tempo – avrei capito.
Carlotta aveva reagito alla caduta delle illusioni con una delle vie che abbiamo a disposizione. Non aveva ristrutturato il pensiero, al 54° secondo. Non era ricorsa alla rabbia. Si era messa nell’angolo della vittima. E si era commiserata.
Il personaggio della vittima lo interpretò che tutto l’inverno. Finché nel marzo del 1976 non incontrò uno studente di Giurisprudenza. E ricominciò il ciclo dell’illusione d’amore.
L’illusione crollata e il personaggio della vittima
Quando, al 54° secondo, le illusioni cadono – e cadono sempre quando non vinciamo e siamo felici per altri secondi – abbiamo una strada che, ho scoperto, pure io ho percorso: il farci vittima.
“E come potevano noi cantare
Con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.“
La splendida poesia di Salvatore Quasimodo, Alle fronde dei salici, bene rappresenta la rinuncia al canto. La scelta di essere vittima. La scelta di vivere il nostro sacrificio.
Appendiamo le cetre alle fronde dei salici. Io, che ogni tanto mi diletto a comporre canzoni d’amore, richiudo la mia chitarra Raimundo nella custodia.
Guardo davanti a me, senza vedere. Ascolto la tristezza salire dal profondo della mia anima. Libero i pensieri, perché non ho voglia di pensare. E scendo nel corpo della vittima.
Essere vittima ci consola, ci giustifica, ci assolve di fronte alla sconfitta.
Le illusioni sono cadute. Abbiamo perso. La donna che amiamo, l’uomo che amiamo, la persona a cui teniamo ci hanno messi da una parte.
Non abbiamo la forza si riformulare il pensiero. Non abbiamo neppure l’energia per sprigionare una rabbia degna di questo nome.
Siamo le vittime sacrificali della cadute delle nostre illusioni. Il che è molto nobile, perché anche al più oscuro degli eroi si rende onore.
Per chi ha le palle e la voglia di vivere, di vincere e di tornare a illudersi, tuttavia, l’angolo della vittima – passato un poco di tempo – diventa soffocante.
Accade allora che ci guardiamo attorno, come quando un rumore inusuale e inaspettato ha attratto la nostra attenzione.
Ci guardiamo attorno e, come in un lampo improvviso dal temporale, una luce si accende. Il cuore accelera. Il respiro si fa un filo più importante.
Le illusioni sono cadute al 54° secondo, ma siamo ancora vivi. E abbiamo ancora una strada davanti: è la via di fuga, lo scappare a gambe levate, il puntare diritti a una porta che si è aperta.
Dopo il crollo delle illusioni, ecco che la fuga ci apre una prospettiva. E torniamo a sorridere, beffardi.
Il fiato non manca. Abbiamo ancora energia per lottare.
Maurizio F. Corte
(parte 5 – continua)
*** Gli articoli sul “ciclo delle Illusioni” li trovi nella sezione Pratico di Nessuno™ di questo blog
- Maurizio F. Corte, giornalista professionista, scrittore per i media e media educator, è docente a contratto di Comunicazione Interculturale nei Media al Centro Studi Interculturali dell’Università di Verona e coordinatore didattico del Master in Intercultural Competence and Management
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