Illusioni cadute. Quella partita a reti inviolate che ci calma l’ansia

Disprezzo il gioco d’azzardo. Noi italiani spendiamo 150 miliardi di euro in un gioco che ha soltanto una soluzione: la sconfitta.

Buttiamo alle ortiche più denaro in gioco d’azzardo che nel comprare cibo.

Disprezzo il gioco d’azzardo non soltanto per questo, a dire il vero. Lo disprezzo perché è un gioco perdente.

Non si vince mai, nel gioco d’azzardo. E se uno vince, millanta e millanta e millanta mona (= stupidi, per i non veneti) perdono.

Se la sconfitta costa ben 150 miliardi – tanti vengono investiti con vittorie che valgono quanto un chiodo di ossidiana – perché, allora, la vittoria non mi prende così tanto?

È una domanda che mi sono posto nel corso di molti anni.

Al 54° secondo, quando la delusione fa capolino dopo il tempo delle illusioni, opponiamo la rabbia, la tristezza, l’allegria di naufragi. E tutte quelle soluzioni che bene conosciamo.

Poi, d’improvviso nella notte, arriva la vittoria inattesa, sconvolgente, insperata. Ci dona l’alba di un nuovo giorno. Ci fa respirare l’orgoglio della battaglia finita bene.

Eppure non siamo contenti. La donna che amiamo non ci ha voluti, però ce n’è una – strafiga che tutti ci invidiano – a consolarci.

Il lavoro tanto sognato è svanito, però c’è un incarico che lo sovrasta come il 54° piano di un grattacielo rispetto al pianoterra di una catapecchia di periferia.

Eppure… eppure… eppure la vittoria non ci convince.

Il disagio della vittoria

Vincere comporta una responsabilità da far tremare i polsi.

Se la donna di cui sei perdutamente innamorato ti sceglie, poi occorre viverci una storia d’amore. Lei avrà attese, aspettative, sogni da farti realizzare.

Se l’uomo che tanto hai sognato decide che sei la donna della sua vita (almeno fino alla rottura), poi occorre mostrarsi all’altezza. E inoltre ti capiterà di crearti aspettative su di lui.

Poi ci sono gli amici, i parenti, i conoscenti dei nuovi partner da non deludere.

Insomma, è vero che vincere costa fatica. Tuttavia, la gestione della vittoria è ancora più stressante. È logorante. Può addirittura essere asfissiante.

Quanti top manager piuttosto che magazzinieri, quanti politici diventati capi di governo piuttosto che consiglieri comunali di provincia hanno mollato l’incarico?

Passata la sbornia della vittoria, tutti loro hanno dovuto fare i conti con i pesi della vittoria.

La quiete del pareggio

Il pareggio è – al contrario della vittoria – una mare di quiete dentro cui tuffarsi senza timore di logorarsi.

Un pareggio a reti inviolate, dove nessuna porta da calcio è stata infranta da un qualche gol, è la metafora dell’atarassia.

“Il vero piacere consiste nella assenza di turbamenti e nell’assenza di dolore”, sosteneva il filosofo greco Epicuro (IV secolo avanti Cristo). Eccola, l’atarassìa.

Un altro filosofo greco, Democrito (V secolo avanti Cristo), in un frammento della sua opera entra ancor più nel dettaglio: “La felicità non dimora né nel bestiame né nell’oro; è l’anima la dimora della beatitudine. La felicità, ovvero il buon animo e il ben-essere e l’armonia, egli la chiama equilibrio e atarassia”.

Il piacere del pareggio senza reti è uno stato di pace interiore, libero da paure e desideri eccessivi, che erano visti – da Epicuro e Democrito – come le principali fonti di sofferenza.

Il pareggio a reti inviolate, al 54° secondo, ci toglie le castagne dal fuoco. Ci sentiamo al sicuro. Siamo, insomma, nella nostra comfort zone. 

Basterà? No. Non basta. 

Certi finali di partita ci immalinconiscono. Perdere ci addolora. Ma anche un pareggio, sai che noia? 

Mi ricordo una partita tra Verona e Reggina (squadra di Reggio Calabria), in serie B, negli Anni Sessanta, allo stadio Bentegodi di Verona.

Andavo allo stadio di calcio con mio papà Walter, tifosissimo dell’Hellas Verona. Ci mettevamo sempre nel settore Parterre Nord dello stadio Bentegodi.

Quel giorno gelido di un autunno addormentato prima del Natale, tuttavia, siedevamo sulla gradinata della Curva Nord. Eravamo forse in 5 mila, in tutto lo stadio.

Ricordo la noia di un pareggio senza reti. Quelle situazioni in cui ti domandi se le squadre sono scese in campo per giocare una partita, oppure per allenarsi davanti al pubblico.

Il pareggio a reti inviolate ci calma ogni ansia. Ti toglie l’affanno, l’apprensione, il timore di poter perdere. E anche quello di una vittoria difficile da gestire.

Però lo stesso pareggio ci annoia in modo mortale. Sarà pure la noia il più nobile dei sentimenti umani, come sosteneva Giacomo Leopardi nel suo Zibaldone. Ma sempre noia resta.

E, allora, al 54° secondo, ci giunge da qualche remota parte della mente una sorta di illuminazione.

Un pensiero, prima leggero come una melodia napoletana e poi più carico come uno slancio sinfonico, ci avvolge. E poi si fissa. E ci dice: “E se la partita fosse rinviata per nebbia?”.

La partita rinviata per nebbia. Era uno dei timori e tremori dei miei anni di bambino, quando con papà Walter si andava alle partite.

La partita rinviata per nebbia, dopo un pareggio a reti inviolate che ci annoia, appare invece come un orizzonte salvifico.

La nebbia, del resto, è uno dei migliori modi naturali di nasconderci. E di scomparire.

Maurizio F. Corte
(Parte 14 – continua)

*** Gli articoli sul “ciclo delle Illusioni” li trovi nella sezione Pratico di Nessuno™ di questo blog

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