Illusioni cadute. E dopo la vittoria, la brusca caduta nel vuoto

Non mi è mai piaciuto barare, nella vita. Detesto gli imbroglioni, gli evasori fiscali e chi fa i furti con destrezza.

Eppure, quell’estate di molti anni fa, pure io barai.

Ero in seconda media, alla scuola Cesare Battisti di Verona, nel quartiere piccolo borghese dove abitavo con papà Walter, meccanico, mamma Maria, sua collaboratrice in officina e casalinga, e mia sorella Patrizia, più piccola di me.

Un giorno, nelle vacanze assoltate ed estive – che andavano da metà giugno al 30 di settembre – aprii la cassetta delle lettere, nel condominio doveva noi eravamo.

Toccavano a me, certe incombenze. Una di queste era di svuotare la cassetta della posta, che era bene frequentata, non come oggi che scriviamo email e Pec.

Trasalii leggendo che il mittente era la scuola media. Come si poteva turbare la vacanza spensierata, di un alunno di 12 anni, con l’antipatica presenza della scuola?

Io ho sempre amato studiare, leggere, apprendere. Ma la presenza della scuola d’estate era come mangiare cotechino e polenta alle 7 del mattino: vomitevole.

Il messaggio, dentro la busta della Cesare Battisti, parlava chiaro: avevo qualche lacuna in italiano che andava colmata. Ai miei genitori si consigliava di provvedere. Immagino con lezioni private.

Scarso in italiano? Non avevo mai preso insufficienze, tuttavia l’insegnante – una donna calabrese di nessuna avvenenza, al contario delle altre professoresse in minigonna – mi aveva preso in antipatia.

Siccome ero figlio di un meccanico, pensava che io non fossi portato per l’italiano. Aveva occhi solo per i figli di altri insegnanti, di professionisti e piccoli imprenditori.

Cosa feci? Stracciai la lettera della scuola e la buttai diritta nelle immondizie, dove a quel tempo non si separavano i rifiuti.

Gettai la lettera, ma non potevo gettare – né avrei mai dimenticato – quei minuti di disperazione, prima della lettura, dopo la lettura e nello smaltimento di busta e foglio intestato della scuola media.

Ero caduto nel vuoto. Ogni certezza si era dileguata. Mi sentivo come spogliato e sputtanato e preso in giro nella pubblica piazza, davanti a tutti. E, soprattutto, davanti a mia madre, che era orgoglioso di quel figliolo che amava studiare; e andava bene a scuola.

La disperazione dei giorni senza futuro

Mi è capitato, nella vita, di avere qualche volta quella sensazione di disperazione, provata nell’estate veronese dei miei 12 anni.

Tuttavia, quando è accaduto, c’era sempre un pensiero confortante a tenermi compagnia.

Altre volte, nella vita, davanti alla disperazione, avevo qualcosa per dribblare il buio del vuoto in cui stavo cadendo; e per neutralizzare la sfiducia nera che senti nel profondo dello stomaco.

Del resto, sono sempre stato il teorico – sin da bambino – del problema e della soluzione. Andavo ripetendo, quando ancora ero alla scuola elementare, che se c’è un problema, allora c’è una soluzione.

“Se non c’è una soluzione, allora non c’è un problema”, discettavo con zio Bepino, fratello di mia mamma, che mi ha insegnato ad amare i libri, i giornali e la musica classica.

Non avevo ancora in mente il concetto di falso problema. Ma c’ero dentro quella posizione teoretica.

Del resto, anni dopo avrei scoperto che con il suo mondo “il migliore dei mondi possibili”, il filosofo Leibniz immaginava una realtà ordinata da una ragione cosmica, dove le disarmonie sono solo note preparatorie per un accordo più ampio.

Quell’estate, di quando avevo 12 anni, mi resi conto che avevo incrociato un problema – la mia carenza scolastica – e non vedevo la soluzione.

O, meglio, la soluzione l’avevo trovata: stracciare la lettera. Tuttavia, quella non era la soluzione al problema del mio basso livello di competenza in italiano – secondo quella razzista dell’insegnante.

Stracciando la lettera della scuola media, con tanto di firma della preside, avevo risolto solo il problema dello sputtanamento agli occhi di mia madre.

La disperazione è come avere giorni senza futuro, io credo. Ebbene, quell’estate mi andavo dicendo che se mia madre avesse scoperto la lettera, io non avrei più avuto un futuro luminoso.

Ovviamente, mi sbagliavo. Il fatto è che quando sei disperato non sempre ti accorgi di disperarti per errore.

Cadute le illusioni, provata la rabbia, l’allegria di naufragi, la noia della partita a reti inviolate e la vittoria a tavolino, c’è invece un messaggio che ci arriva. E non è un bel messaggio.

Il vuoto improvviso sotto i nostri piedi

La vittoria a tavolino ha esaurito il suo effetto, dopo i 53 secondi delle illusioni.

Il vincere a tavolino ci ha ripagato delle ingiustizie subite, delle fatiche portate a termine; e ci ha donato la giusta dose di botta di fortuna.

Tuttavia, una vittoria non è per sempre.

A un certo punto, c’è un’altra partita da giocare. Noi ci rendiamo conto di mettercela tutta, di impegnarci al massimo, come facevo io con l’italiano.

La storia della mia vita ha smentito la mia professoressa delle medie. Il suo classismo verso il figlio di un meccanico è stato irriso dalla mia carriera di giornalista.

La nuova partita della vita ci mette di fronte, ancora, alle nostre carenze.

Sappiamo di non essere i primi della classe.

Sappiamo che, là fuori, c’è qualcuno che non ci vuole bene, che ci vuole manipolare, che fingerà di amarci. E noi, invece, gli daremo fiducia.

Più di qualche donna, nella mia vita, mi ha deluso. Intendo, deluso in modo profondo.

La carenza, però, era mia. Non mi ero impegnato abbastanza. Ero, invece, ingenuo abbastanza da sconfinare nella presunzione di essere un fuoriclasse delle relazioni.

La carenza era mia, perché non mi ero allenato ai rapporti con gli altri. Avevo giocato la partita come se fosse un incontro tra scapoli e ammogliati; e avevo pensato che il trofeo comunque mi spettasse.

Tornando alla disperazione, il disperare è una caduta nel vuoto. E se cadiamo nel vuoto è perché non ci siamo preparati – dopo la fine delle illusioni, al 54° secondo – a gestire la sconfitta.

Non cadiamo nel vuoto, se perdiamo una partita giocata con impegno, preparazione e onore. Almeno, così la vedo io.

La caduta nel vuoto, tuttavia, ha – come tutte le sconfitte – il suo retrogusto dolce.

Disperati, con una nera amarezza nel profondo dello stomaco, in caduta libera dentro al vuoto dove le certezze si sono rabbuiate, atterriamo comunque da qualche parte.

Non esiste una disperazione infinita. Per sempre. 

Come amava dire mia nonna materna, Elda, “non possiamo stare sempre bene, ma non possiamo neppure stare sempre male”.

L’atterraggio nel vuoto della disperazione è morbido.

Come cantava in Emozioni il mio amato Lucio Battisti – su versi di Mogol – “quando cade la tristezza in fondo al cuore, come la neve non fa rumore”.

L’atterraggio della disperazione ci porta, del resto, a distenderci su un letto fatto di sabbia finissima, come quella del fiume Adige, accanto al quale sono nato in un gelido giorno di febbraio del 1957.

La sabbia è sotto di noi, attorno a noi e un poco nell’aria. Non c’è rumore alcuno.

Al 54° secondo, ritroviamo un poco di pace. Persino la luce lentamente fa capolino, nel crepuscolo mattiniero. 

Cominciamo a intravedere qualcosa. Poi il qualcosa si fa certezza. Al 54° secondo, cadute le illusioni, dopo la disperazione, siamo nel mezzo di un deserto senza confini.

In un deserto, lo sappiamo, non ci resta che camminare. Perché non c’è nessuno che ti viene a prendere.

Maurizio F. Corte
(Parte 17 – continua)

*** Gli articoli sul “ciclo delle Illusioni” li trovi nella sezione Pratico di Nessuno™ di questo blog

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